Il 20 dicembre si è svolta, presso la Sala della Costituzione in Via Milano a Campobasso, la cerimonia di premiazione della prima edizione del Premio letterario, istituito a memoria della persona e dell’opera del Dott. Sergio Zarrilli, impegnato in favore dei bambini e dei ragazzi sia attraverso la sua attività professionale e sia nella promozione della lettura con il progetto “Nati per Leggere”.
E gli alunni della classe III della scuola secondaria di primo di grado di Limosano guidati dalla prof.ssa di Lettere, Francesca Marcucci, hanno partecipato al concorso e si sono aggiudicati il secondo premio.
La partecipazione al Premio consisteva nella produzione di elaborati di tipo diverso, graduati a seconda della fascia di età dei partecipanti, tutti assolutamente inediti. Il tema del Premio, relativamente alla prima edizione di quest’anno, è stato

“Raccontiamo… la solidarietà”. I partecipanti, ciascuno per la propria categoria, sono stati così chiamati ad inventare una storia che trasmettesse la ricchezza di questo valore nei rapporti umani: in famiglia, tra gli amici, a scuola, sul luogo di lavoro, nel tempo dello svago, in qualunque contesto.
Agli alunni di Limosano col racconto ‘Mackabo Mpocmo’, che alleghiamo per far leggere a tutti, è stata assegnata, come premio, una selezione di libri scelti dal gruppo regionale “Nati per Leggere”.
I migliori complimenti ai ragazzi che con entusiasmo e impegno si sono cimentati ad essere ‘veri scrittori’…in erba!

Di seguito il testo…

“Ласкаво просимо”

Era il 21 marzo dell’anno appena trascorso quando la prof di italiano entrò in classe, con voce commossa e agitata ci comunicò che il giorno seguente sarebbero arrivati nella nostra scuola dei compagni ucraini. Sì, giungevano proprio da noi, a Limosano, salutando la loro terra perché in preda alla guerra.
Nei giorni scorsi sempre con la prof abbiamo discusso e commentato a lungo le notizie che arrivavano da Zaporizhzhia e da Odessa, abbiamo letto e sfogliato quotidiani di differenti ideologie politiche, ma, purtroppo, su questo inquietante argomento si uniformavano: una tristezza infinita! Anziani senza più un tetto, dispersi e costernati, bambini alla ricerca della salvezza. La prof definì questo evento: “La guerra degli innocenti”. Bombe dappertutto, cadaveri nel mezzo della strada senza una degna sepoltura.
Ed ora, il pensiero di avere al mio fianco persone che stavano vivendo e sperimentando con i lori occhi un aberrante conflitto mi spaventava.
La notte prima di quel 22 marzo ero così agitato che non riuscivo a chiudere occhio. La mia gamba sinistra tremolava incessantemente e la mia mente era tutta proiettata a ciò che sarebbe accaduto la mattina seguente.
Mi svegliai di soprassalto, capii di aver dormito qualche ora.
Mi preparai velocemente, bevvi un goccio di latte, baciai i miei genitori e mi fiondai, emozionato, verso il cancello della scuola. Mi attendevano i miei soliti compagni di classe, ancora nessun altro. Era forse troppo presto, quando ad un tratto dietro un albero apparve una macchina nera, una Panda, mai vista prima. Erano loro, i nostri nuovi compagni. Silenziosamente scesero dall’auto, erano in quattro: tre piccolissime bimbe bionde, con occhi cerulei che sicuramente avrebbero frequentato la scuola dell’infanzia e un ragazzino, di nome Victor, più alto di me e dei miei compagni, dal viso smunto e dalla corporatura esile. Li accogliemmo con uno scroscio di applausi, aspettando una loro espressione di stupore, che non giunse mai. Si mostrarono, al contrario, ancora più spauriti. Timidamente ognuno prese il proprio zainetto e compostamente attese che si dicesse cosa fare e dove andare.
Con loro c’era una signora che parlava una lingua strana, incomprensibile per me. Era l’ucraino. Tutto d’un tratto la prof ci chiamò e ci incitò a pronunciare a gran voce: “Mackabo mpocnnmo…nella nostra scuola”. La prof aveva gli occhi lucidi. Anch’io. Mi avvicinai a Victor, che dall’aspetto avrebbe potuto frequentare la scuola media; era molto spaventato. Gli dissi: “Stai sereno, qui siamo in pace”. Non mi capì, proferì qualcosa, la signora mi chiese di abbracciarlo. Tremammo insieme. “Qui non ci sono i rumori assordanti dei cannoni, Victor. Sei giunto in una terra nuova, dove non ci sono soldati”, esclamai! Mi rimbombò in mente una canzone che cantavo ogni domenica nel coro della chiesa: “E poi quante persone dovranno morir perché siamo in troppi a morir? Quanti cannoni dovranno sparar e quando la pace verrà? Quanti bimbi innocenti dovranno morir e senza saperne il perché? Quanto giovane sangue versato sarà finché un’alba nuova verrà? Risposta non c’è o forse chi lo sa…caduta nel vento sarà”. Quanto dolore di fronte a me. Lasciammo il giardino della scuola ed entrammo in aula. Anastasia era muta, Dalila disse che aveva bisogno di riflettere, mentre Clarissa insieme alla prof mostrarono le aule della scuola e i bagni a Victor. In quel momento scoprimmo che avrebbe frequentato proprio la nostra classe. Mi avvicinai a Sebastiano e ad Alessandro e con poche parole, ma sguardi intensi capimmo che era nostro dovere fare qualcosa, tutti insieme. Decidemmo di affrontare una missione: far tornare il sorriso sul volto del nostro nuovo amico!
Nei giorni successivi ci inventammo l’impossibile pur di stare con lui. Victor viveva in casa famiglia perché non aveva nessuno, noi eravamo le uniche persone che lui vedeva, quindi cercammo di distrarlo in ogni modo: giocammo insieme, indossammo addirittura le vesti di ciceroni e gli insegnammo tutte le strade del nostro paesello. Alessandro e Sebastiano gli donarono tanti vestiti e lui con molto rispetto e gioia nel cuore li accettò.
Una mattina umida e piovosa venne a scuola con le scarpette da ginnastica bucate, aveva di sicuro i piedi gocciolanti, ma non aprì bocca. Noi lo vedemmo agitato e il pomeriggio andammo insieme a Campobasso in un negozio per comprargliene un paio rosse e blu.
Lo portai spesso a casa mia a cena, ormai era uno di noi perché con la sua gentilezza e i suoi modi timidi e garbati conquistò soprattutto la mia mamma. Un pomeriggio ci chiudemmo nella mia cameretta, gli lessi così tanti libri, per avvicinarlo all’italiano, che credo gli scoppiò la testa; si era fatto molto tardi, lo riaccompagnai in casa famiglia dove gli operatori mi rimproverarono.
Passarono i giorni, si iniziò ad instaurare tra noi un filo, era il filo tenace dell’affetto che non voleva più spezzarsi, sentivamo tutti la necessità di stare insieme a Victor, di allontanare i ricordi cattivi, di restituire a lui ciò che noi avevano ricevuto dalla vita. Aiutandolo, ci sentivamo gratificati, positivi, ottimisti…insomma era come se aiutavamo anche noi stessi. Nessuno poteva permettersi di esprimere un commento o un giudizio negativo su di lui. Al parco un lunedì pomeriggio si avvicinò a me e a Victor un ragazzo di un paese qui vicino, San Biase, che non aveva una buona reputazione per tutte le bambinate che aveva commesso. Scrutò attentamente il mio amico, come se avesse qualcosa di diverso e, con tono pungente e sprezzante, gli disse: “Non ti vergogni, non hai niente, sei arrivato qui con un misero zainetto. Io ti ho visto”. Victor aveva bisogno di me, era in difficoltà, allora con prepotenza gli riportai una citazione di Enzo Bianchi che avevo sentito pronunciare da mia nonna Nina una sera, mentre discuteva con nonno Peppe sulla questione dell’inclusione degli immigrati: “Se fai un viaggio lungo sia leggero il tuo bagaglio: sarai meno stanco e più disposto ad accogliere ciò che ti sarà donato ogni nuovo giorno”. Lo azzittii e fuggì via. Victor emise un lungo sospiro, ci guardammo e continuammo a giocare, come se nulla fosse accaduto.
Erano ormai trascorse delle settimane dal suo arrivo quando, durante una lezione di storia, Victor interruppe la prof, si alzò in piedi ed esclamò in italiano: “Grazie!”. Sì, proprio così, disse: “Grazie della vostra Solidarietà”.
Tornai a casa e mentre pranzavamo raccontai ai miei genitori quanto mi fossi commosso oggi a scuola. Mamma mi accarezzò il viso e mi sussurrò dolcemente di non smettere mai di donare…

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